
Smart work, vi racconto come è andata all'Istat
Attività sindacale, attività di ricerca ed elaborazione dati hanno dato buona prova anche a distanza. Ma per cogliere in pieno queste positività sono necessari forti investimenti. L'istituto rischia di scendere sotto la soglia di duemila dipendenti per la prima volta dagli anni Sessanta


Lorenzo Cassata, ricercatore Istat e responsabile del comitato di ente per la Flc Cgil
L’ultima volta che sono entrato nel mio posto di lavoro era venerdì 6 marzo. Da allora come quasi tutti i miei colleghi sono in “lavoro agile per calamità”, e la mia attività, compresa quella sindacale, si è spostata integralmente tra le mura domestiche.
Abbiamo iniziato quasi subito a fare riunioni virtuali con i mezzi più disparati, a partire da quelli che erano già disponibili sulla piattaforma dell’Istat, e che molti colleghi già usavano. Grazie al grande lavoro degli informatici dell’istituto in pochi giorni quasi tutti avevano gli strumenti software per connettersi al proprio desktop virtuale e al pc dell’ufficio. Molti colleghi hanno ricevuto materiali hardware, la gran parte si è attrezzata con quello che aveva a casa.
Quasi subito sono cominciati anche i confronti sindacali con l’amministrazione, in modalità “a distanza”, ognuno da casa sua. La gran parte del dibattito si è concentrata su come gestire la situazione della pandemia. È stato difficile ma spesso stimolante scontrarsi e accordarsi in una situazione in cui da tutte e due le parti del “tavolo” si stava vivendo una modalità di lavoro inedita e obbligata.
Contemporaneamente come lavoratori siamo stati impegnati a cercare di mantenere tutti gli impegni correnti dell’istituto, il rilascio dei dati con il suo fitto e inesorabile calendario. E non solo. Perché da subito è apparso evidente che il paese chiedeva all’ente statistico uno sforzo aggiuntivo. È così che l’Istat, in pieno lockdown è riuscito in “tutto quello che non si poteva”. Ha anticipato di diversi mesi il rilascio dei dati di mortalità, ha collaborato con l’Iss a numerosi rapporti specifici sui decessi per Coronavirus e sulle cause di morte (anche in questo caso con largo anticipo rispetto alla “normalità”), ha realizzato due indagini specifiche sugli aspetti economici e sociali dell’emergenza, ha collaborato con il ministero della Salute e l’Iss alla realizzazione dell’indagine sulla sieroprevalenza, ha collaborato con il governo alla predisposizione dei codici Ateco in occasione del lockdown di marzo, ha curato scenari economici e sociali, è stato coinvolto nell’osservatorio sul mercato del lavoro in seguito all’emergenza Coronavirus, ha aggiunto domande a numerose indagini e ha elaborato un Rapporto Annuale completamente dedicato alla pandemia e alle sue conseguenze economiche e sociali.
Per far sì che queste novità positive non si perdano ci sarebbe bisogno di un forte investimento aggiuntivo per assunzioni e strumenti, digitali e non. L’Istat ha un bilancio fermo da anni. L’investimento sui censimenti, che è servito all’ente nella sua storia per rinnovarsi, si è più che dimezzato col passaggio al “censimento continuo” e si esaurirà presto. Tra pochi mesi l’Istituto nazionale di statistica rischia di scendere sotto la soglia di duemila dipendenti per la prima volta dagli anni Sessanta.
Anche per questo tra i progetti del Recovery Fund sarebbe opportuno inserire l’investimento sulla ricerca e sulla statistica pubblica che da anni chiediamo e che renderebbe il paese più forte, non solo nell’emergenza. Tra i fondi assegnati fino ad ora sono stati esclusi tutti gli enti di ricerca che non dipendono direttamente dal ministero dell’Università e della ricerca. Tra questi, oltre all’Istat, ci sono enti in prima linea nella ricerca di base e nel supporto tecnico alle politiche del Paese: Iss, Crea, Ispra, Enea, Inapp.
Tutto quello che l’Istat ha realizzato e sta realizzando è stato possibile anche perché siamo stati connessi e responsabilizzati, ognuno dalla sua abitazione, arrangiandoci in condizioni a volte difficili (convivenze forzate, ambienti e strumenti non ideali, gestione contemporanea di familiari da assistere o figli piccoli), ma con indubbi vantaggi, anche lavorativi: il lavoro da remoto ha favorito una maggiore “orizzontalità” dell’organizzazione che a sua volta è un presupposto dell’attività di ricerca e che invece le rigide gerarchie dell’ufficio, espresse anche dagli spazi fisici e dalla distanza fra le sedi, spesso frenano.
Tra giugno e luglio, quando la pandemia sembrava a tutti avere allentato la presa, non si sono liberati solo gli spostamenti all’interno e all’esterno del paese, ma anche, purtroppo, una serie di pensieri tossici che hanno ripreso a circolare. La cantilena sui dipendenti pubblici fannulloni, che era sparita per qualche mese seppellita dall’eroismo di operatori sanitari, ricercatrici e ricercatori, ha ripreso vigore: questa volta l’accusa dei tuttologi da talk show ai dipendenti pubblici, con forza respinta dalla Cgil, è di essere fannulloni perché in smart working.
Difficile conciliare il coro di “autorevoli” opinionisti con la realtà dei lavoratori dell’Istat (e di tantissimi altri enti pubblici) impegnati a far funzionare un ente di ricerca che produce quotidianamente i dati per analizzare i fenomeni sociali ed economici che gli stessi commentano in tv.
Purtroppo quelle parole al vento hanno influenzato le decisioni politiche. Con il decreto rilancio infatti l’intera pubblica amministrazione è stata chiamata, tutta e a prescindere, a “ripartire” (come se si fosse fermata) da settembre, riportando i dipendenti in ufficio, pur continuando lo smart working al 50 per cento, per dimostrare di non essere “lazzaroni” e consentire ai bar e alle pizzerie nei quartieri degli uffici a corto di clienti di non fallire. In una situazione di ripresa della circolazione del virus dopo il mese di agosto, oltre alle incognite sulla riapertura delle scuole e sulle conseguenze sanitarie dell’appuntamento elettorale del 20 e 21 settembre, la legge ha previsto, in contemporanea, la rimessa in circolazione di almeno un milione di dipendenti pubblici, senza distinguere tra chi svolge attività di servizio al cittadino in presenza e tutti gli altri il cui lavoro non è stato compromesso dalla modalità in remoto. È davvero una decisione oculata?
E così anche all’Istat, a partire dall’inizio di settembre, in anticipo rispetto ad altri enti, l’amministrazione ha deciso di dare il segnale e riaprire le sedi, seppure con turnazioni e tutele delle fragilità. Nel confronto sindacale, che purtroppo non è normato e lascia ampi margini alle decisioni unilaterali delle amministrazioni, siamo riusciti a fine luglio a inserire criteri di tutela, ma il tempo stretto per decidere i “piani di rientro” e la ritrosia di alcuni dirigenti a far valere pienamente quelle condizioni ha creato e sta creando un forte malcontento. E la prima vera assemblea virtuale che abbiamo organizzato a inizio settembre lo ha dimostrato.
Riaprire le sedi è una necessità, per la parte di colleghe e colleghi che in questi mesi ha sofferto per l’isolamento, la strumentazione insufficiente, la connessione ballerina o gli spazi inadeguati. E anche per chi, nella catena degli appalti, rischia di rimanere senza lavoro, come le lavoratrici e i lavoratori delle mense dell’Istat di Roma. Con loro siamo scesi in piazza a luglio e finalmente sono stati riassunti.
Ma una maggiore gradualità sarebbe stata e sarebbe preferibile. Molti colleghi si chiedono e ci chiedono perché lavorare in ufficio, magari prendendo i mezzi pubblici, rischiando il contagio proprio e degli altri, quando stiamo lavorando bene, anzi meglio, da casa. E la risposta noi non ce l’abbiamo. Occorrerebbe chiederlo innanzitutto a Rampini, Ichino o Cottarelli.
A oggi l’organizzazione del lavoro, e quindi anche lo smart working, non è materia di contrattazione sindacale, ma quando si parla di “lavoro agile”, “da remoto” o “smart working” si deve partire dalle esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori, contrattando le regole, oppure si rischia il fallimento. Per questo stiamo continuando a cercare di riportare al tavolo sindacale, per il presente e per il futuro, le decisioni sul lavoro agile e sull’organizzazione del nostro istituto.